domenica 25 marzo 2012

La stagione del laicato organizzato non è finita

Nel suo contributo pubblicato su “Toscana oggi” il 25 marzo Pietro De Marco liquida sbrigativamente la stagione del laicato organizzato, riconducendola in modo decisamente riduttivo all’ispirazione dossettiana e giudicando inadeguata la risposta da essa fornita, con la “scelta religiosa”, alla crisi del ’68 ed alla secolarizzazione della società italiana negli anni ‘70. Mi pare una valutazione non solo ingenerosa nei confronti della grande passione per la Chiesa e per l’uomo che ha animato l’attività di uomini come Lazzati, Bachelet, Monticone, Casavola, ma anche profondamente sbagliata.
Non mancò, è vero, chi teorizzò in quegli anni (magari richiamandosi a Dossetti) una diaspora non solo politica ma culturale: ma l’Azione cattolica della “scelta religiosa” ed altri movimenti organizzati seppero riproporre in forme nuove un impegno associativo che non metteva affatto tra parentesi l’ispirazione cristiana; e col loro apporto negli anni ’70 la Chiesa italiana seppe  elaborare piani pastorali fondati sulla centralità dell’evangelizzazione. La dottrina sociale della Chiesa trovò oppositori ma non scomparve  affatto, negli anni ’70-80, dall’orizzonte dei cattolici italiani: l’impatto della “Populorum progressio” e delle successive encicliche sulla riflessione di associazioni come l’Azione cattolica e di settori del partito di ispirazione cristiana mi pare innegabile (ricordo tanti incontri dedicati all’impegno dei laici nella società ed ai problemi del Terzo mondo). Mi sembra piuttosto che negli ultimi anni le resistenze al pensiero sociale della Chiesa (da ultimo alla “Caritas in veritate” ed al documento elaborato dalla Commissione pontificia “Iustitia et pax”)  provengano da quel cattolicesimo conservatore (di cui è espressione ad es. Novak) che rinuncia ad ogni forma di critica nei confronti dei poteri economico-finanziari (responsabili della crisi in cui ci troviamo) e prospetta scelte politiche dei cattolici con riferimento pressoché esclusvo ai cosiddetti “principi non negoziabili”.
Il laicato cattolico degli anni ’80 era certamente troppo litigioso al proprio interno, e non si mostrò forse capace di riconoscere tempestivamente la gravità della “questione antropologica”; ma non era affatto “una costellazione disorientata e incontrollabile”. Se da un lato va riconosciuto al card. Ruini il merito di aver sottoposto all’attenzione di tutti la questione antropologica e di aver delineato il Progetto culturale, dall’altro mi sembra che quella stagione della CEI (di cui oggi percepiamo sempre più certi limiti) abbia mortificato, al di là dell’enfatizzazione dei movimenti guidati da leaders carismatici, il protagonismo dei laici e favorito il riemergere di forme di clericalismo, come hanno giustamente denunziato negli ultimi tempi Fulvio De Giorgi, Paola Bignardi, Giorgio Campanini. A questo neoclericalismo si è accompagnato un atteggiamento di acquiescenza  nei confronti del berlusconismo, motivato dalla ricerca di un sostegno politico e legislativo alle “opere” cattoliche ed ai “principi non negoziabili”: al di là di qualche innegabile vantaggio contingente (la legge 40, lo stop a proposte in direzione dell’eutanasia, le agevolazioni fiscali per le attività della Chiesa, di cui non nego affatto la legittimità), ciò ha comportato un affievolimento della tensione morale nella vita politica e la rinuncia di fatto, nelle scelte politiche della maggioranza dei cattolici (non più orientati da associazioni che si muovevano nella linea del Concilio), a quella prospettiva del bene comune che risultava invece centrale nella dottrina sociale della Chiesa, e che non può essere sbrigativamente etichettata come “statalista”.

Certamente un buon politico cattolico deve essere una persona competente, non soltanto un buon cristiano che prega spesso: ma, come ci hanno insegnato Maritain e Lazzati, una forte spiritualità laicale, alimentata da precisi percorsi associativi, è un presupposto imprescindibile per una buona politica che si ispiri al bene comune e non ad interessi particolari o a ideologie estranee; mentre un cattolico isolato viene facilmente risucchiato dalle logiche dei poteri forti.    

La stagione del laicato organizzato non è quindi finita, anche se bisogna continuamente ricalibrarne il pensiero e l’azione in rapporto ai “segni dei tempi”: in un contesto storico segnato da una presa di coscienza sempre più forte dei limiti di una politica per troppo tempo subalterna nei confronti dei grandi poteri economico-finanziari, e di una gestione troppo clericale della Chiesa, i laici cattolici italiani devono ritrovare gli strumenti per far sentire la loro voce nella Chiesa e ricominciare, dopo vent’anni di latitanza che hanno giocato a favore del berlusconismo, ad elaborare una cultura politica cristianamente ispirata (anche se certamente non più proponibile nei termini del “partito unico dei cattolici”). In questa direzione il movimento di cui faccio parte (il MEIC) ha elaborato il “Progetto Camaldoli” per promuovere una nuova maturità del laicato: l’anniversario ormai vicino del “Codice di Camaldoli” non può significare una riproposizione meccanica di un modello di presenza politica almeno in parte anacronistico, ma deve rappresentare l’occasione per ritrovare la tensione spirituale ed etico-politica che animava gli uomini che lo elaborarono.

Raffaele Savigni
Presidente diocesano del MEIC di Lucca  


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